13 giugno 2008

peaches

Sono caduto dentro ai colori della frutta, al banco del supermercato. Erano le otto e fuori pioveva da matti. Non sembrava giugno. Non sembrava neanche lavoro, se si stava lì a girare e a girare fino a notte, a passare quelle dodici ore forzate e interminabili. Poi, la frutta. C'erano i peperoni rossi e le pesche gialle. Le fragole erano muffe, alcune. Le banane, verdi. Ho alzato gli occhi e ho visto un mio collega che era lì anche lui per comprare qualcosa di corsa. Bisogna adattarsi, mi ha detto. Ho annuito e ho messo nel cestino delle pesche noci. Le mangio la sera quando sto qui che leggo e scrivo. Con la buccia. A morsi.

11 giugno 2008

Te recuerdo

Le strade tortuose di internet mi hanno riportato in contatto con amici che non sentivo da moltissimo tempo. Fa impressione parlare di nuovo con persone con cui si è divisa la giornata per anni, ma di cui non si sa più un accidente da tanto. A un certo punto zac, ti butti in un canalone che prende un'altra strada e il paesaggio ti sfila via di lato, non riesci più, neanche volendo, a rimanerci in contatto. Mi colpisce soprattutto la differenza di sintonia: mi è capitato in diverse occasioni di dire cose che non sono state recepite, come se non le avessi dette. Cose che in qualche modo riguardano le modalità di questo perdersi di vista. Sono persone a cui voglio bene, ma che sono diventate completamente estranee, sotto un certo aspetto. Eppure ne ho ricordi vividi, e quanti, per un lungo segmento di tempo. Dieci-quindici anni. Più netti di qualche amore rimosso. E' bello riguardarseli uno a uno.

5 giugno 2008

Frida

Abbiamo una gattina. L'abbiamo presa l'altro giorno da un tizio vicino a Sovicille. Il quarto gatto della vita mia, dopo i due d'infanzia e Alice che è rimasta a Roma. L'abbiamo chiamata Frida pensando a Sanseverino. Lei è piccolissima (sette etti), mangia tutto (riso, pollo, tonno, latte, formaggio, croccantini, diti, nasi, recchie, tappeti, fili, eccetera) ha imparato al volo tutte le cosette che doveva imparare e via. Sta correndo avanti e indietro per il soggiorno da quasi due ore, mi sa che nella pappa di stasera c'era qualche roba di quelle che prendono i ciclisti. Adesso si è fermata sulla mia spalla e mi guarda mentre picchio le dita sulla tastiera. Non se l'immagina, che scrivo di lei. La porto a nanna.

29 maggio 2008

Ubaldo

Ubaldo teneva le unghie lunghe e si pettinava con la scriminatura a destra, anche se non aveva più capelli nella zona in cui gli sarebbero serviti per farsi una riga decente. Non era, questa, una buona ragione per non farlo. Usava un talco che si mescolava al suo odore e finiva per avvicinarsi al lezzo di un che di fritto. Portava sempre delle camicie stirate impeccabilmente, con l'ultimo bottone aperto. Se la camicia era una button down andavano rigorosamente slacciati i bottoncini del collo. Indossava sempre pantaloni di cotone blu o chiari. Quando doveva presentarsi in modo più elegante si metteva quelli del vestito buono, un frescolana grigio scuro, con sotto i mocassini comodi e un po' sformati, che ne tradivano la pianta larga. Da piccolo plantigrado era anche la peluria: irsutissimo, Ubaldo aveva peli ovunque, persino sul dorso della mano e sulle orecchie. Questo rendeva drammatici, talvolta, i suoi problemi di traspirazione, ma per lui la cosa non era importante. L'avvento dello stick deodorante da usare sotto le ascelle lo aveva lasciato indifferente. Al tempo svernava all'istituto tecnico, doveva formarsi e non aveva tempo da perdere con queste frivolezze. Ubaldo portava occhiali spessi, era appassionato di motori e aveva un'ossessione vera e propria per le linee esatte. Non sopportava di vedere oggetti fuori posto, nel senso geometrico del termine. Nel contempo, era incapace di usare i colori coordinandoli al meglio: il cozzo cromatico era una delle sue specialità, come le giacchette bianche e l'infinita serie di tic che sciorinava nei soliloqui scanditi dall'oscillazione ritmata dell'intero corpo. In queste circostanze Ubaldo somigliava a un topone che se ne stava eretto a concionare, col suo linguaggio asfittico e contorto. Era cattivo. Odiava qualunque manifestazione politicamente corretta e passava il tempo a guardare il culo a tutte le donne che incrociava.

ebenezer

Ebenezer ama alzarsi presto, la mattina. Alle cinque, caschi il mondo, è già in piedi a lavare la macchina. Cioè, una delle sue macchine. Poi va a curarsi la campagna, seguito dalle gatte che gnaolano e si strusciano. Le lascia fare: ha sempre amato sentirsi lisciare, da umani o da felini che differenza fa? Meglio i felini, direbbe lui, visto che gli umani sono smidollati senza ritegno, da tenere stretti nel pugno e da piegare alla propria volontà. Quel pugno che, diceva quello, può essere ferro e può essere piuma. Lo sa bene il malcapitato che quei pugni li ha assaggiati, e quanti ne ha stesi, il vecchio Ebe! Da quando a undici anni ne sdraiò un paio, a scuola, che sembrava avessero venticinque anni. Sbèm. Un cazzottone nei coglioni, ché chi mena per primo mena due volte, e tanti saluti a quelli che provavano a fare i nonni. "I calci io non li prendo. Li do". Questo era Ebe, fin dai primi passi.

27 maggio 2008

nessuno pensa al tempo

Il tempo fa la differenza. Lo sa bene chi se ne appropria, del tempo degli altri. E c'è tempo e tempo. Un'ora passata come si deve ne vale cento sprecate senza che ci si costruisca niente di buono. Dovremmo poterlo vendere bene, il nostro tempo. Perché a usarlo bene si può essere felici. E non è usato bene, forse, il tempo venduto a qualcuno perché ci si arricchisca lui e solo lui. Non è solo il tempo passato con chi si ama, quello speso bene. E' anche quello speso per migliorarsi e per stare meglio con se stessi. Quelli che comprano il nostro tempo pensano di poterne disporre a piacimento. Almeno alcuni che conosco. Pensano che comprando il tempo di una persona se ne possa disporre da padroni. Non del tempo. Della persona. E' triste solo a pensarci, ma chi fa così è incapace di concepire la felicità. Perché quel tempo comprato e rivendicato con la voce grossa è sottratto alla vita delle persone, se si fa in modo che quello non sia un tempo di crescita, ma solo di semplice e atroce sottomissione. I meccanismi che entrano in gioco sono delicati e pericolosi: spesso chi entra in un modo così violento e invasivo nella vita degli altri ne ottiene l'attenzione esclusiva e ne paralizza in qualche modo la volontà. Bisogna sapersi sottrarre e non è facile. In pochi ci riescono. Questo spiega alcune cose sull'Italia, per dire. Ma non solo.

Respirare

Quello col tempo è un braccio di ferro continuo. Uno trova il modo di recuperarlo e lo riperde, poi, con gli interessi. Si rende libero dal lavoro e incontra il lavoro che rende liberi. Un lager metaforico, per fortuna. Ma anche no. Bisogna trovarci dentro il percorso giusto, perché poi queste cose servono sempre. A trovare il modo di uscirne, ma anche a imparare l'assiduità, la capacità di fare qualcosa meglio che si può isolandosi dal resto e tutto il solito pacchetto di cose che fanno di un lavoro una scuola. Certo, però, che lavorare stanca...

23 maggio 2008

paura

quando hai tanta paura, va bene tutto quello che te la fa passare (cit.)

30 aprile 2008

Doppio brodo e passa la paura

Fare il brodo è facile. Non ci vuole niente. Io piazzo un mare di roba in una pentola (un pezzo di manzo, delle ossa con un po' di nervetti e il midollo, una cipolla piccola, un porro, una carota, un paio di coste di sedano, qualche grano di pepe, qualche chiodo di garofano) la copro d'acqua e la lascio borbottare lì un paio d'ore. A parte i dieci minuti che ci vogliono per preparare la roba, la fatica è tutta qui. Mi piace forte, poi ci faccio i tortellini o il risotto. Stasera, per smaltire le delusioni degli ultimi giorni, abbiamo preparato una cena un po' demodé, ma cazzarola: terrine de lièvre su tartine, brodo de manzo chii tortellini alla chianina (insomma, credevo meglio, il tortello, ma il brodo era ottimo) e poi lesso con le salse e le patate, un bello chardonnay fresco fresco, fragole, gelato, moscadello e ciao. Che vuoi farci? Niente TV, che è tutta una faccia a culo, tra quelli tronfi che hanno vinto e quelli livorosi che hanno perso. Poi lasciamo perdere le ghigne elette alle cariche istituzionali. Il Chelsea per di più mi batte il Liverpool che è l'unica squadra per cui avrei tifato un pochetto, insomma, non c'è gusto. Per giunta ero talmente impicciato al lavoro che non ho potuto sbirciare le dichiarazioni dei redditi e mi sono accorto della cosa solo quando era tornata off-limits. Stasera ho scoperto che Grillo se l'è presa, forse non voleva si sapesse del fottìo di soldi che guadagna, e che i fedeli l'hanno un po' beccato. Tutti i falsi profeti fanno una brutta fine, non c'è da meravigliarsi e infatti. Intanto a Roma parte la tolleranza zero di Alemanno, ma dall'Ara Pacis. La prendiamo alla lontana, via. Mi aspetto i primi editoriali critici piovere sul nuovo sindaco: per ora ne ho letti soltanto di trionfali. Sarà che per abitudine e affetto ancora leggo Epolis.

27 aprile 2008

Il formicaio atlantide

Ero seduto sul muretto di tufi sul fianco del cimitero. Faceva caldo e stavamo lì ad aspettare che arrivasse il funerale, col vento che ci soffiava addosso per dispetto, anche se, ripeto, faceva caldo. Una coppia di cipressi guardava dentro al camposanto. Uno era bello sano, con la chioma florida, pizzuto pizzuto e portava la bandiera dell'orgoglio dei cipressi, alberi che da sempre difendono i cimiteri. L'altro era pelato, almeno per tre quarti. Guardava dentro e sembrava dire ecco, io volevo essere piantato in Val D'Orcia o nel vialetto di qualche villa di qua, sul Chianti, o nelle crete. Io non volevo fare l'albero pizzuto come quasi tutti i cipressi, che poi ci fa il nido qualche civetta e tutti si grattano i coglioni quando ci passano sotto. Volevo fare da margine in un parco, con gli scoiattoli che mi balzano sopra e invece sto qua a guardarmi i morti, e tutte le persone che vengono qua a trovare i morti, e manco stessimo a Spoon River, che almeno senti quello che hanno da dirsi. Vita dura per i cipressi. Accanto a me, a due-tre passi, per terra, c'era il mucchietto di terra smossa di un formicaio. Doveva esserci una pausa di lavoro, o forse si festeggiava il 25 aprile. Tutto taceva, solo una formichina caracollava lì vicino, e a quattro-cinque metri c'erano altri tre-quattro mucchietti di terra che erano formicai limitrofi, o che. Forse sottoterra brulicavano formiche come sulla tangenziale, formiche che andavano a prendere i formichini a scuola, formiche che lavoravano duro a sminuzzare molliche, bucce, robe buone dalla terra grassa accanto al cimitero. La strada era a un passo. Dalla strada arrivava un vecchio sallucchione con l'aria un po' sonnacchiosa, che ciondolava pigro, in attesa pure lui del corteo funebre del povero vicino di casa defunto all'improvviso. Ciondolando ciondolando spiattellava completamente il montarozzino delle formiche. Alcune, tre o quattro, si precipitavano all'esterno, altre perivano all'interno come in un cataclisma atlantideo. Magari lo ricorderanno per generazioni, contando i giorni passati dalla grande acciaccata. Il vecchio, intanto, spariva dietro l'angolo che portava all'entrata sul retro. E il vento continuava a soffiare.