24 giugno 2008

paura

(facendo il verso a carver)

paura dell'ansia.
paura del vicolo buio.
paura delle curve a sinistra.
paura del cane che mi salta sulle gambe.
paura di cadere saltando gli ostacoli.
paura quando freno in bici e vedo la strada scorrere sotto.
paura se sento frusciare nell'erba.
paura di finire i soldi.
paura col temporale, non sempre, non più.
paura di farsi male, soprattutto con le parole.
paura che il passato ritorni, com'era.
paura di Giancarlo.
paura che il futuro riporti al passato, o che.
paura di svegliarmi che non ci sei.
paura di andarmene dopo.
paura dell'ombra per le scale.
paura di non essere capito.
paura di sentirmi in colpa.
paura che non c'è.
paura della morte.
paura che non c'è.
l'ho già detta.

23 giugno 2008

Evviva!


sono tornate le personcine

19 giugno 2008

light up your tuna salad

Salii in macchina e mi misi più comodo che potevo. Stappai una bottiglia dal six pack di acqua francese da un euro. Buttai giù una lunga sorsata, poi incominciai a scartare il ciaccino sintetico fatto in comode strisce facili da staccare. Aprii la scatola di tuna salad (light). Dentro c'era una morbida crema rosa su cui galleggiava qualche cappero e qualche pezzo di cetriolo. Il profumo era sublime: c'era l'aceto. E poi ce n'era tanta: 250 grammi. Slurp.
Affondai nella crema la prima striscia di ciaccino. La ritirai fuori e me la misi in bocca, assaporando un gustoso boccone di quella pappa prelibata. Masticai soddisfatto, interrompendo la lettura degli squisiti ingredienti dell'insalata per buttare giù un'altra sorsata di limpida acqua francese. Attaccai la seconda striscia, mentre il vento cercava un varco tra le macchine parcheggiate e il cantiere dall'altra parte della strada, e un crocchio di natasce combatteva con la gettoniera dei carrelli. Brindai ai loro occhi celesti stappando la seconda bottiglia del six pack di acqua francese. Chiusi gli occhi, e pensai a Parigi.
(da colazione da Lidl)

18 giugno 2008

Rock in ritardo

Internazionale ha pubblicato un bell'articolo che racconta come Huey Lewis sia un musicista molto amato dai disabili. L'articolo è pieno di delicatezza e di profonda competenza, come sottolinea l'ottimo Mandu di Special Crabs Overlimits, che l'ha messo on line sul suo blog cestistico, facendomi un gran favore, perché volevo postarlo a mia volta. L'ha scritto Katy St.Clair, del san Francisco Weekly. Bello.

17 giugno 2008

cose d'apaz

Come ogni volta si commemora. E stavolta fanno vent'anni. Io però vorrei ricordarmi di me alle prese con i suoi disegni. Perché poi un artista che hai seguito te lo ricordi non perché ti ricordi di lui, ma perché ti ricordi di te che osservi le cose fatte da lui. Nel tempo. Io disegnavo. Quando lo scoprii mi si aprì un mondo, avrò avuto 15 anni e sapevo tenere discretamente la matita in mano. Iniziai a copiare sistematicamente le cose che disegnava lui. Cioè, a introdurre dei particolari ripresi dai suoi disegni, un'ombra, un tratto, un modo di rappresentare qualcosa. Bocche, occhi, denti, mani, piedi, posture. Ho imparato da lui a disegnare i genitali maschili in un certo modo e li ho rifatti in mille vignettine dedicate agli amici. I piedi, un buffo modo di lavorarli a partire dall'alluce. Il modo di distribuire la peluria e di disegnare le gambe in azione. C'era quel tratto sghembo, quel senso d'abbozzo, di uscito-da-quaderno che non avevi come modello a disposizione se ti mettevi a ridisegnare topolino, o i fumetti marvel, o i peanuts, o mafaldita o non so che. Era un far viaggiare la matita fuori dagli schemi, mettersi a schizzare personecoseanimali e a scriverci sopra improvvisando sketch di lettering, riempiendo gli spazi vuoti, andando a inventare forme diverse di rappresentare il fumetto (la nuvoletta, intendo). Poi uno cresce e smette pure di disegnare, ma come si può dimenticare tutto quel lavoro di fantasia? A me Paz mi ha fatto crescere, in un certo senso. Cioè, sono cresciuto leggendo lui e ridisegnandomelo. Mi manca lui, ma soprattutto mi manco io. Quell'io che sapeva aggrapparsi a una matita, perché il tempo era ancora tutto di là da venire. Per Andrea non ce n'era tanto, ma non ne ha sprecato un secondo. Almeno questo.

15 giugno 2008

Perché ci vuole orecchio

A un certo punto arrivò. non so da dove. Era verde e aveva una custodia di finta pelle che ne lasciava fuori un pezzo, con l'occhio per regolare le frequenze. Era una radiolina di non so che marca, bene inestimabile e prezioso, magico oggetto che rimbalzava la radiocronaca del secondo tempo delle partite e ci potevi camminare come se fossi grande, tenendola attaccata all'orecchio. Avevamo una radio elettrica, a casa, che era bianca, tutta abbombata, con le frequenze dipinte in oro. I nomi di tutte quelle località esotiche. Mio padre chino sulla schedina con l'orecchio proteso verso quella radio è un'immagine nitidissima ancora oggi. L'altra radio era più moderna, e anche molto meno bella. Aveva una custodia di finto cuoio tutta grattata e mia madre la ascoltava sempre. Mi ricordo la domenica mattina col Gran Varietà dove c'era Walter Chiari, la Corrida di Corrado, Non so che con Delia Scala, e Hit Parade con i Beatles, Gilbert O'Sullivan, Angie degli Stones, Mind Games di John Lennon, Hurricane di Bob Dylan che già facevo le medie. L'orecchio era teso a cogliere il corpo del suono che era esile e sfuggiva, ma portava cose di inestimabile valore. Erano scoperte, erano segni che scandivano la giornata. Mia nonna ascoltava un programma di musica popolare che andava la sera, saranno state le sei, le sette, non so. C'erano tutte queste canzoni, la Calabrisella, lu Cardillo. Me le ricordo ancora, come fosse ieri. Ho iniziato lì, forse, ad avere la mania per le cose che si dicono e si cantano in tutti i posti, quelle del posto, intendo, che mi sembrano sempre straordinariamente belle. Mi accorgo che a scriverne si aprono strade a non finire, e così era anche allora. Partivano tutte dall'orecchio e si liberavano, sfavillando, in tutte le direzioni. Benedetta quella radiolina.

13 giugno 2008

peaches

Sono caduto dentro ai colori della frutta, al banco del supermercato. Erano le otto e fuori pioveva da matti. Non sembrava giugno. Non sembrava neanche lavoro, se si stava lì a girare e a girare fino a notte, a passare quelle dodici ore forzate e interminabili. Poi, la frutta. C'erano i peperoni rossi e le pesche gialle. Le fragole erano muffe, alcune. Le banane, verdi. Ho alzato gli occhi e ho visto un mio collega che era lì anche lui per comprare qualcosa di corsa. Bisogna adattarsi, mi ha detto. Ho annuito e ho messo nel cestino delle pesche noci. Le mangio la sera quando sto qui che leggo e scrivo. Con la buccia. A morsi.

11 giugno 2008

Te recuerdo

Le strade tortuose di internet mi hanno riportato in contatto con amici che non sentivo da moltissimo tempo. Fa impressione parlare di nuovo con persone con cui si è divisa la giornata per anni, ma di cui non si sa più un accidente da tanto. A un certo punto zac, ti butti in un canalone che prende un'altra strada e il paesaggio ti sfila via di lato, non riesci più, neanche volendo, a rimanerci in contatto. Mi colpisce soprattutto la differenza di sintonia: mi è capitato in diverse occasioni di dire cose che non sono state recepite, come se non le avessi dette. Cose che in qualche modo riguardano le modalità di questo perdersi di vista. Sono persone a cui voglio bene, ma che sono diventate completamente estranee, sotto un certo aspetto. Eppure ne ho ricordi vividi, e quanti, per un lungo segmento di tempo. Dieci-quindici anni. Più netti di qualche amore rimosso. E' bello riguardarseli uno a uno.

5 giugno 2008

Frida

Abbiamo una gattina. L'abbiamo presa l'altro giorno da un tizio vicino a Sovicille. Il quarto gatto della vita mia, dopo i due d'infanzia e Alice che è rimasta a Roma. L'abbiamo chiamata Frida pensando a Sanseverino. Lei è piccolissima (sette etti), mangia tutto (riso, pollo, tonno, latte, formaggio, croccantini, diti, nasi, recchie, tappeti, fili, eccetera) ha imparato al volo tutte le cosette che doveva imparare e via. Sta correndo avanti e indietro per il soggiorno da quasi due ore, mi sa che nella pappa di stasera c'era qualche roba di quelle che prendono i ciclisti. Adesso si è fermata sulla mia spalla e mi guarda mentre picchio le dita sulla tastiera. Non se l'immagina, che scrivo di lei. La porto a nanna.