15 giugno 2008

Perché ci vuole orecchio

A un certo punto arrivò. non so da dove. Era verde e aveva una custodia di finta pelle che ne lasciava fuori un pezzo, con l'occhio per regolare le frequenze. Era una radiolina di non so che marca, bene inestimabile e prezioso, magico oggetto che rimbalzava la radiocronaca del secondo tempo delle partite e ci potevi camminare come se fossi grande, tenendola attaccata all'orecchio. Avevamo una radio elettrica, a casa, che era bianca, tutta abbombata, con le frequenze dipinte in oro. I nomi di tutte quelle località esotiche. Mio padre chino sulla schedina con l'orecchio proteso verso quella radio è un'immagine nitidissima ancora oggi. L'altra radio era più moderna, e anche molto meno bella. Aveva una custodia di finto cuoio tutta grattata e mia madre la ascoltava sempre. Mi ricordo la domenica mattina col Gran Varietà dove c'era Walter Chiari, la Corrida di Corrado, Non so che con Delia Scala, e Hit Parade con i Beatles, Gilbert O'Sullivan, Angie degli Stones, Mind Games di John Lennon, Hurricane di Bob Dylan che già facevo le medie. L'orecchio era teso a cogliere il corpo del suono che era esile e sfuggiva, ma portava cose di inestimabile valore. Erano scoperte, erano segni che scandivano la giornata. Mia nonna ascoltava un programma di musica popolare che andava la sera, saranno state le sei, le sette, non so. C'erano tutte queste canzoni, la Calabrisella, lu Cardillo. Me le ricordo ancora, come fosse ieri. Ho iniziato lì, forse, ad avere la mania per le cose che si dicono e si cantano in tutti i posti, quelle del posto, intendo, che mi sembrano sempre straordinariamente belle. Mi accorgo che a scriverne si aprono strade a non finire, e così era anche allora. Partivano tutte dall'orecchio e si liberavano, sfavillando, in tutte le direzioni. Benedetta quella radiolina.

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