12 agosto 2007

Rumiz e Annibale, altre puntate

6. La leggenda delle Alpi
gli elefanti e la memoria


7. In cima al passo alpino
alla conquista dell'Italia


8. Alla ricerca del fiume Trebbia
che nei secoli si è spostato


9. La forza della via Emilia
linea di frontiera lastricata


10. Dentro al mistero dell'Appennino
dove il gran Generale perse un occhio


11. La tomba del console
un fantasma senza testa

1 commento:

Anonimo ha detto...

RUMIZ ANTE PORTAS

Lassù, in groppa all'elefante,
Rumiz P. ne ha fatte tante:
ha incantato i baldi alpini
con i classici latini,
poi, con passo svelto, elastico
e furor toponomastico
è partito, incontenibile,
sul cammin che fu d’Annibale.
A Sulkì, tonno e Kanai
come i veri buongustai
ingerisce, in compagnia
d’un che sa d’archeologia
per aver da lui l’immagine
di che cosa fu Cartagine.
(Dove poi, giacché gli garba,
si fa radere la barba).
Poi fa un salto a Cartagena,
ed è buffa qui la scena:
un tassista che va a cento
gli sottrae l’orientamento.
Voi giammai no ‘l crederest:
vede il sol che scende a Est!
Indi sal su per l’Iberia
e la cosa si fa seria:
alla festa di Ripoll
trova pecore ed agnell,
di moriscos ce n’è tanti,
ma non tracce d’elefanti.
E, passati i Pirenei,
non finiscono i suoi guai:
nelle fauci quasi casca
dell’orrifica Tarasca
che, in version più o meno identica,
vive in tutta l’area celtica.
Ma Polibio e il café au lait
gli fan dir: “C’è Lui con me!”
e lo insegue sui tornanti
tra ipotetici elefanti.
(Per quei lampi nel diaframma
forse avrà gridato: “Mamma!”).
Dalla cima, fino a Cuneo
ratto va, senz’infortunio,
a sentir la bella bionda
che gli spiega ch’è leggenda
il passaggio d’Annibal
proprio là, tra quelle val:
nulla Cuneo ebbe a che far
col servizio militar!
Poscia corre dai Taurini
a giuocar coi soldatini,
per veder se quella nebbia
che travisa il fiume Trebbia
si schiarisce un po’ e lo lascia
liberarsi dall'ambascia
di non esser proprio in grado
di capir dov’era il guado
dove accadde la battaglia,
tra le stoppie e la sterpaglia,
lì, nei campi maledetti
che i Roman vider sconfitti.
Finché un tal che fa il geologo,
con un lucido monologo,
non gli spiega: “È lunga fiata
che la Trebbia s’è spostata!”,
indicandogli col dito
un terren ben definito,
e nel mentre il giorno cade
fa: “Lì ci trovi zanne, e spade!”
Rumiz P., di poca fede,
a ‘ste fole poco crede
e con garbo senza ugual
chiede lumi ad... Annibàl!
(Che, a scansare lazzi e frizzi,
or si chiama Gianni Brizzi).
E lo assume come guida
per la strada alquanto infida
che li porta all’Arno tosco
nel cercare il duce losco,
ed al Lago Trasimeno
sempre di misteri pieno:
là Flaminio, nell'agguato,
soccombè, decapitato.
Poscia scendono in Campania
per sfuggire dalla pania
della storia (O forse è un mito?
Il dibattito è infinito)
e raggiungere poi Canne
dove - sto contando a spanne -
ne morîr sessantamila
(li pensate, tutti in fila?)
ed il prode condottiere
tenne a freno le sue schiere
non sfruttando la vittoria
(è un mistero della storia).
Per il panico i Romani
fecer sacrifici umani,
mentre Annibale, pudico,
si grattava l'ombelico
dal solstizio all'equinozio
stando a Capua, casto, in ozio.
Rumiz P. ci resta meno:
quasi affoga nel Tirreno
per fiondarsi a Siracusa
d’Archimede con la scusa
e, seduto sulla riva,
sbocconcella qualche oliva.
Riede a Capua, il nostro eroe
(lo fareste pure voi)
per studiar su carte e mappe
quali furono le tappe
per cui giunse, e da che parte,
fin di Roma sulle porte
dei Cartaginesi il capo
(ecco un vero grattacapo).
Già che c’è, tra funghi e piante,
va a veder Pietrabbondante
Rumiz P., e un po’ divaga
col racconto, che ci appaga,
dei romani legionari,
fantaccini senza pari,
che tagliâr - senti un po’ questa! -
ad Asdrubale la testa
sul Metauro. E pel fratello
non fu certo un segno bello.
In Calabria va girando
Rumiz P. qua e là, narrando
di quei Brettii che una mano
voller dare all’africano
e perciò ben triste sorte
ebber, peggio che la morte.
(La question meridionale
lui la spiega - eccezionale! -
coi soprusi dei potenti,
fin da allor, su quelle genti).
Ci racconta dei Numidi
che, lasciati i nostri lidi
imbarcandosi a Crotone,
affrontarono Scipione;
e ci svela pur la trama
della pugna in quel di Zama.
Del gran leader lui ci spiega,
con la scienza che niun nega,
come eletto fu sufeta,
per fuggir più tardi a Creta.
Parte poi per Artaxata
che in Armenia fu fondata
per trovare della storia
pure lì qualche memoria.
Mangia yogurt e formaggio
d’un pastore nell’alpeggio,
e con lui beve Arenì,
un buon vin che fanno lì.
Ma di Marmara sul Mare
sente di dover andare:
la sensibil sua vibrissa
or gli ingiunge: “Va’ a Libyssa,
dove Annibale il Numida
di velen morì suicida!”
Ammirato il monumento,
lui potrìa dirsi contento,
dopo aver lette e tradotte
le iscrizioni poliglotte
che Kemal vi fece apporre
lì, di Gebze tra le forre,
però vuol vedere ancora
una tomba. E assai l’accora
ritrovar quella di Scipio
(con il qual ebbe principio
l’avventura qui narrata)
tra i rifiuti abbandonata.
Quel che ho scritto, qui lo giuro,
come lapide sul muro
è realtà, non è fandonia:
l’hanno detto al Bagno Ausonia.